Un raggio di sole, tiepido come una carezza, illuminava il piccolo cantiere dove Miran e suo padre Hazar, fianco a fianco, davano forma al loro futuro. Reyyan li osservava, il cuore colmo di una tenerezza struggente, ogni colpo di martello un passo verso una serenità a lungo sognata. La vita, dopo tempeste indicibili, aveva finalmente concesso una tregua, e l’attesa del loro bambino ammantava ogni istante di una magia indescrivibile. “Saremo felici,” pensava Reyyan, “Finalmente felici.”
Ma la felicità è effimera quando le radici dell’odio sono profonde e velenose. Proprio in quel fragile idillio, la figura imponente di Nasuh Shadoglu si profilò all’orizzonte. Il vecchio patriarca, un tempo duro come la pietra, si avvicinò a Miran con un’umiltà inattesa. In disparte, con voce rotta, Nasuh confessò una vita intera vissuta respingendo l’affetto, mostrando solo rabbia e furia. “Sono un uomo duro e impulsivo,” ammise con gli occhi lucidi. “Ma desidero davvero chiamarti nipote? Siamo dello stesso sangue.” Implorò perdono, sperando in una nuova alba. Miran, il cui cuore portava ancora le cicatrici di inganni e vendette, ascoltò con cautela. Ogni fibra del suo essere desiderava una famiglia, ma la fiducia era un cristallo frantumato. “Tutto dipende dalla volontà di Dio,” rispose, lasciando una porta socchiusa.
Per Nasuh fu come se il sole fosse sorto di nuovo. Corse verso il nipote, l’anima esultante. “Amici e nemici ora sapranno che sei parte della mia anima, il mio sangue!” annunciò, proclamando una cena in onore di Miran quella sera stessa.
Conflitti Familiari e Nuove Alleanze
Mentre la notizia si diffondeva, Zeynep, con l’innocenza della sua età, cercava di comprendere il dolore di sua madre, cacciata in lacrime da Firat. Lo accusò di crudeltà, ignara delle tempeste che si agitavano nell’animo del giovane. Poco dopo, Miran si confidò con Reyyan. Il desiderio di vedere il loro bambino crescere in una famiglia unita era immenso, ma il suo cuore era un campo di battaglia. “Non mi sento pronto ad abbracciare gli Shadoglu e chiamarli famiglia,” confessò. Reyyan, saggia e amorevole, propose di declinare l’invito, per proteggere la pace così faticosamente conquistata.
La sera scese, carica di aspettative e tensioni. Al ristorante, la famiglia Shadoglu si era riunita, ma l’atmosfera era tutt’altro che festosa. Zehra, pallida, temeva che Miran e Reyyan non si presentassero. Cihan e Handan covavano il risentimento più acceso. “Come potevano accogliere a braccia aperte l’uomo che aveva osato sparare al loro Azat?” si chiedevano. “Miran non verrà, sarà una lezione per mio padre,” sentenziò Cihan. Nasuh, percependo il disastro imminente, stava per ordinare la cena quando Miran e Reyyan entrarono. Il sollievo sul volto di Nasuh fu immenso, la sua gioia incontenibile. “I miei due nipoti, sedetevi qui accanto a me!” esclamò, iniziando a dipingere un futuro idilliaco, con Miran e Reyyan che si sarebbero trasferiti nella grande casa di famiglia.
Ma i sogni possono trasformarsi in incubi. Cihan chiese la parola. Il suo tono era gelido, le sue parole affilate come lame. “Ammetto che Miran è figlio di mio fratello,” concesse con un sibilo carico di disprezzo. “Ma dichiaro che non permetterò che viva con noi sotto lo stesso tetto. Non vivrò mai con un uomo che ha sparato a mio figlio, un mercenario.” La parola “mercenario” esplose nell’aria carica di veleno. Hazar si levò in piedi, gli occhi fiammeggianti, difendendo il figlio. Miran e Reyyan, feriti e umiliati, si alzarono per andarsene. Hazar li supplicò di restare. Miran, con dignità, ringraziò Nasuh per l’offerta, ma la declinò: “Completeremo la costruzione della nostra casa e vivremo lì per non disturbare la pace di nessuno.” Fu Reyyan, con il coraggio forgiato dal dolore, a guardare Cihan dritto negli occhi. “Perché non vuoi accettare Miran?” chiese, e poi rispose lei stessa alla sua domanda con una lucidità spietata: “Perché se accettassi Miran, dovresti ammettere di aver lasciato morire tuo nipote, di averlo abbandonato al suo destino.” Le parole di Reyyan caddero come una sentenza. Cihan e Handan, incapaci di sostenere il peso di quella verità, lasciarono la cena. Azat, il loro figlio, in un atto di sfida, scelse di restare con il resto della famiglia, segnando una crepa insanabile nel clan Shadoglu.
La Scacchiera di Azize e il Terrore di Füsun
Mentre una famiglia si lacerava, nella sontuosa ma fredda villa Aslanbey, altre trame venivano ordite. Azize preparava la tavola per una cena che Füsun sperava fosse un’alleanza con gli Shadoglu, in particolare con Cihan e Handan, che però non osarono disobbedire a Nasuh. Sultan, nel frattempo, spingeva una riluttante Gönül a prepararsi per la cena. “Ora sei tu la padrona di questa casa,” le ricordò.
Non lontano da lì, nascosta nell’ombra, una figura solitaria osservava la scena al ristorante. Era Azize. Il suo cuore, un tempo indurito dalla vendetta, ora sanguinava di rimorso. Nasuh, uscito per parlarle, la trovò lì, un fantasma del passato. Azize confessò di osservare i suoi cari di nascosto e poi la rivelazione che avrebbe potuto cambiare tutto: Dilşah è viva, rapita sì, ma viva. E lei, Azize, prometteva di trovarla e restituirla a suo figlio, Miran. Nasuh la rimproverò per aver cresciuto un bambino innocente senza madre, per aver alimentato la vendetta. Azize, con voce rotta, ammise di aver voluto che Miran si vendicasse, ma ora giurava avrebbe rimediato a tutto. C’era solo un ostacolo, un nemico implacabile: Füsun. Azize rivelò che Füsun la odiava perché aveva preso il cognome Aslanbey, e ora voleva tutto. “Stai attento a Füsun, Nasuh. Tieni la tua famiglia lontana da lei. Se dovesse scoprire che Azat è nostro figlio, distruggerebbe tutto.”
Proprio in quel momento, Hazar uscì dal ristorante. Vide suo padre parlare con Azize. La sua reazione fu immediata, violenta. “Cosa significa tutto questo? Perché questa donna è qui?” La afferrò per un braccio, ordinandole di sparire. Azize si allontanò nell’oscurità. Hazar, sospettoso, chiese al padre se gli stesse nascondendo qualcosa. Nasuh mentì, assicurando che Azize voleva solo la pace.
La vendetta di Azize, però, era già in atto. Mentre Cihan e Handan venivano accolti da Gönül e da una sorpresa Füsun nella villa Aslanbey, i cancelli si spalancarono con fragore. Erano poliziotti. Davanti agli occhi sbigottiti di Füsun, arrestarono suo figlio Harun. Azize, entrata nella villa come se fosse casa sua, sedette con calma regale tra gli ospiti. Con un sorriso di pura soddisfazione si rivolse a Füsun: “Che ne dici, Füsun? Basta che io compaia e chissà perché tutti subito si alzano in piedi.” Mentre Harun veniva portato via in manette, Azize si gustava la sua prima significativa vittoria. Poco dopo, il telefono di Füsun squillò. Era Azize. La sua voce fredda e tagliente: “Harun è nelle mie mani. Lo riavrai solo in cambio di mia nuora, Dilşah. Hai tempo fino all’alba.” Füsun, messa con le spalle al muro, mentì spudoratamente a Cihan e Handan, ma dentro la rabbia e la paura la consumavano.
Harun, prigioniero di Azize, si dimostrò più astuto di quanto sua madre potesse immaginare. Le chiese perché avesse bisogno di Dilşah. Azize parlò di porre fine all’odio. Harun allora giocò le sue carte: “Se avessi voluto farti del male, avrei già svelato i tuoi segreti, per esempio, che tu sei Aice, l’amante di Nasuh.” Dichiarò di volere anche lui la fine della vendetta. “Se per salvare tutti dovrò tradire mia madre, lo farò,” promise. Si offrì di consegnarle Dilşah, a patto che Azize la restituisse a Miran. Azize, pur diffidando, vide un barlume di possibilità. E così, con un accordo fragile, Harun fuggì dalla prigionia di Azize. Rientrò nella villa Aslanbey, lasciando Füsun sbalordita. Subito affrontò la madre: “Perché hai rapito Dilşah? È viva. Perché non la restituisci a suo figlio?” La supplicò di chiamare Miran, ma Füsun era irremovibile. “Prima punirò Azize con crudeltà,” promise, “Userò Miran come strumento.” Harun capì con orrore la profondità della follia vendicativa di sua madre. Füsun chiamò Azize, un sorriso beffardo sulle labbra: “Non sei riuscita a trattenere mio figlio a lungo.” Azize, giocando d’astuzia, rispose: “Ho voluto così. Ho fatto in modo che si parlasse di me perché tu non dimentichi mai di cosa sono capace.” Sapeva che Füsun stava tramando qualcosa di terribile.
Segreti Svelati e un Inganno Mortale
Le tensioni personali continuavano a erodere le fondamenta delle famiglie. Zehra, consumata da una gelosia silenziosa, trovò una vecchia lettera di Dilşah nella giacca di Hazar. Gliela restituì, ma temeva che quei frammenti di passato potessero distruggere il loro presente. Alla villa Aslanbey, Yaren, sempre più arrogante, tentò di impossessarsi della stanza di Reyyan e Miran. “Questa stanza è vuota, sarà mia,” dichiarò ad Azize. Gönül, la nuova padrona di casa, non glielo permise. Quando Yaren la sfidò, ridendole in faccia e minacciando di riferire tutto a Füsun, la rabbia di Gönül esplose. La afferrò per i capelli, la trascinò sulla terrazza. “Tu non sei la padrona di casa, ma un ospite impertinente,” le sibilò. “Non vivrai nella stanza di Reyyan e Miran e se mi disobbedirai ancora ti caccerò da casa mia.” Era una Gönül nuova, temprata dal dolore.
Lontano da quelle lotte di potere, Miran e Reyyan vivevano momenti di apparente dolce normalità. Il sesso del bambino divenne un gioco affettuoso. L’importante, disse Miran, è che sia sano. Ma anche la più piccola delle azioni poteva avere conseguenze inaspettate. Un melograno colto da Miran da un giardino senza chiedere il permesso divenne fonte di angoscia per Reyyan. “È un furto,” disse preoccupata, temendo ripercussioni sul loro bambino. Per tranquillizzarla, Miran promise di restituirlo. Si ritrovarono così a lavorare duramente per un intero giorno per un vecchio solitario e scontroso, il proprietario del giardino, che li costrinse a pulire, attingere acqua, annaffiare, potare e spaccare legna. Reyyan pulì la casa e preparò la cena. Solo alla sera, esausti ma con una lezione ben appresa, ricevettero ciascuno un melograno. “Non tutto si può comprare con il denaro,” sentenziò il vecchio.
Un piccolo dramma, una pausa quasi serena prima che l’abisso si spalancasse di nuovo. La spirale della vendetta e delle confessioni stava per raggiungere il suo apice più oscuro. Sultan, prima di abbandonare la villa Aslanbey, si presentò alla porta di Azize. Il suo arrivo fu come un vento gelido. Uno schiaffo violento risuonò nella stanza. Poi la confessione sputata fuori con un odio che non conosceva tempo: “Ho ucciso tuo figlio.” Rievocò l’incidente in cui erano morti i genitori di Elif e in cui era morto anche Ahmed, il figlio di Azize. “Mi supplicava di non abbandonarlo, di salvarlo,” raccontò Sultan. “Ma io non mi sono nemmeno voltata. Ho solo sentito le sue suppliche e poi l’esplosione.” Dichiarò di aver già pagato quel peccato con la morte del proprio figlio, ma assicurò ad Azize che lei avrebbe dovuto ancora pagare per i suoi. Azize, annientata, le chiese perdono. Sultan le sputò ai piedi e se ne andò, lasciando Azize a confrontarsi con un altro frammento del suo passato insanguinato.
Ma la confessione più sconvolgente, quella che avrebbe riscritto legami di sangue e destini, doveva ancora arrivare. Esma, la fedele, silenziosa Esma, non resse più. Convocò Miran, Gönül e Firat, nella capanna dove ora vivevano Miran e Reyyan. Miran, stanco di intrighi, inizialmente si rifiutò di ascoltarla. Di fronte a un Firat freddo e ostile, Esma crollò. Con un urlo che squarciò l’aria, confessò la verità che l’aveva consumata per decenni: “Sono stata io a uccidere Nihat Aslanbey.” Firat la guardò, gli occhi sbarrati dall’incredulità e dall’orrore. “Lui mi aveva disonorata,” continuò Esma, “Lo aveva spinto giù dal balcone. Aveva scoperto troppo tardi di essere incinta. Aveva voluto togliersi la vita, ma Azize glielo aveva impedito. Azize l’aveva portata a Mardin, dove era nato Firat.” Azize aveva trovato per lui una famiglia adottiva. “Non volevo vederlo,” confessò Esma, “per paura che somigliasse a suo padre, ma l’ostetrica aveva insistito perché lo allattasse. Quando lo stavo allattando, il piccolo mi afferrò forte il dito, come se avesse capito che stavano per separarlo da me. Lo guardai e vidi in lui un’anima pura e innocente e capii che non avrei mai potuto lasciarlo.” Quel giorno Esma tenne Firat con sé e Azize l’aiutò facendo sembrare tutto un’adozione. Non solo, Azize trasferì l’intero patrimonio della famiglia Aslanbey a nome di Firat. “Nihat Aslanbey è tuo padre,” ripeté Esma a un Firat devastato. “E io l’ho ucciso. Per questo ho dovuto tacere tutti questi anni, temendo che potesse succederti qualcosa, perché tu sei Firatbey.” Firat, il mondo crollatogli addosso, se ne andò senza dire una parola, lasciandosi alle spalle le macerie della sua identità.
L’Apice della Vendetta e il Destino di Reyyan
Mentre queste verità venivano a galla, distruggendo e ridefinendo vite, Füsun affilava le sue armi per l’attacco finale. Capì che Azize doveva tornare ad essere la vecchia Azize, la guerriera. Una telefonata di Füsun la costrinse a indossare di nuovo la maschera. “Hai osato toccare mio figlio?” sibilò Füsun al telefono. “E lo pagherai. Volevi fare di Miran un assassino, ma non ci sei riuscita. Io ci riuscirò. Presto Miran verrà da lei per uccidere e non dovrà aspettare mesi per questo.” Dopo queste parole agghiaccianti, Füsun chiuse la chiamata e chiese alla sua guardia se l’ordine fosse stato eseguito. La risposta fu affermativa. Molto presto il suo regalo sarebbe stato consegnato a Reyyan. Azize, il sangue gelato nelle vene, cercò disperatamente di decifrare le parole di Füsun. “Mesi.” La gravidanza di Reyyan. Il terrore la invase. Chiamò immediatamente Reyyan, la voce rotta dall’urgenza, ma Reyyan, stanca di Azize e delle sue continue ingerenze, le intimò di non telefonarle mai più e riagganciò.
Un attimo dopo, un uomo si presentò alla capanna di Reyyan. Disse di essere stato mandato da Hazar e portava con sé un vassoio di dolci, dei lokum profumati. Reyyan, ignara del veleno che si celava sotto quell’apparenza innocua, ne assaggiò un pezzo. Poco dopo, mentre era nel campo a raccogliere bulbi per Zeynep, sentendosi stanca, si sedette su una pietra. Decise di mangiare un altro di quei dolci che credeva un pensiero gentile di suo padre. Nel frattempo, Mahfuz dal carcere chiamava Azize, preoccupato per Reyyan, temendo che Füsun potesse farle del male, e Füsun, dal canto suo, attendeva i suoi ospiti. Certa che presto Azize sarebbe passata da cacciatrice a preda.
Azize, seguendo il suo istinto e il terrore puro, fermò un taxi e si fece portare di corsa alla capanna. Non trovò nessuno. Poi, in lontananza, nel campo, scorse la figura di Reyyan. Corse verso di lei, il cuore in tumulto. Miran, intanto, veniva convocato da Füsun al ristorante. “Devi venire,” gli aveva detto lei. “Si tratta del tuo lontano passato. Non servono parole, meriti di meglio.” Miran, ignaro della trappola che stava per scattare sulla sua amata, si diresse verso l’incontro.
Mentre Reyyan iniziava a sentirsi male, un malessere strano che inizialmente attribuì alla gravidanza, Azize la raggiunse ansimante. “Stai bene?” le chiese cercando di scrutare nel suo volto. Reyyan, infastidita, la cacciò via con durezza. Azize, per un istante, pensò che Füsun avesse voluto solo spaventarla, che i suoi timori fossero infondati. Fece per andarsene il cuore un po’ più leggero, ma un rumore sordo, un tonfo innaturale alle sue spalle la fece voltare di scatto. Reyyan giaceva a terra, immobile. Il suo corpo inerme sul terreno arido, vittima di un piano diabolico, di un odio che non conosceva limiti. Il veleno di Füsun aveva colpito. Mentre gli occhi di Azize si sbarravano per l’orrore, il telefono di Füsun squillò nel ristorante dove attendeva Miran. “Sono arrivati?” chiese. La sua voce calma, quasi soave. La sua vendetta era servita, fredda e letale. Reyyan è caduta. Miran stava per cadere in un’altra trappola. Il destino, ancora una volta, mostrava il suo volto più crudele. Chi avrebbe potuto fermare quella marea di oscurità? E c’era ancora speranza, o solo un abisso di dolore senza fine?