L’aurora, con la sua promessa di un nuovo inizio, stenta a tingere di rosa i vasti domini de La Promesa. È come se il sole stesso intuisse la densità delle tenebre che si sono accumulate tra le sue mura durante la notte, un’oscurità che non deriva dall’assenza di luce, ma dal veleno distillato in anime corrose dall’avidità, dal rancore e da un’insaziabile sete di potere. E nel vortice stesso di questo uragano di macchinazioni, Leocadia, avvolta in un’aura di gelida determinazione, svela con meticolosa precisione i fili di un piano così spietato da far impallidire lo stesso Machiavelli.
La Proposta Inaudita di Leocadia: L’Innocenza Come Pegno di un Patto Infernale
La notte precedente, Leocadia ha organizzato un incontro segreto con il temuto Duca de Carvajal y Cifuentes. Non è una richiesta, ma un’esigenza velata che il Duca, nonostante il suo orgoglio, non può declinare. Nella penombra della sua biblioteca personale, santuario di tomi antichi e segreti ancora più antichi, Leocadia svela la sua proposta.
“Mio stimato Duca,” inizia Leocadia, la sua voce un sussurro che taglia il silenzio come una lama affilata. I suoi occhi, pozzi oscuri di ambizione, si fissano su quelli dell’aristocratico. “La nostra nascente alleanza è la base su cui entrambi costruiremo imperi. Per lei, il consolidamento definitivo di un potere già formidabile. Per me…” Una pausa, un sorriso enigmatico, quasi impercettibile. “…la soddisfazione di vedere i miei modesti interessi prosperare all’ombra della sua influenza.”
Il Duca, appoggiato alla sua poltrona con l’indolenza di chi si sa superiore, fa un gesto con la mano. “Leocadia, mia cara, la sua ‘modestia’ è leggendaria quanto la sua astuzia. Andiamo al dunque. Le ore notturne sono per il riposo o per cospirazioni di alto livello, e sospetto che non mi abbia convocato per discutere del tempo.”
Il sorriso di Leocadia si allarga minimamente. “Sempre così perspicace, Duca. In effetti. Ciò che sono venuta a proporle non è una semplice formalità, ma la malta che unirà le nostre fortune in modo irrevocabile. Un sigillo di sangue, per così dire, anche se senza bisogno di versarne una sola goccia… almeno, non in senso letterale e immediato.” Il suo sguardo diventa più intenso, quasi ipnotico. “Propongo, mio signore Duca, che i neonati di Catalina e Adriano, quei piccoli e innocenti virgulti, siano la garanzia vivente del nostro patto indissolubile.“
Se una statua di marmo potesse impallidire, il Duca lo avrebbe fatto in quell’istante. Per un momento, la compostezza che tanto coltivava sembra incrinarsi. Le sue dita, che stringono una coppa di brandy invecchiato, si contraggono. “¿I… i bambini?” La sua voce, di solito un comando, suona vuota, incredula. “¿Ha perso il giudizio, Leocadia? O è uno dei suoi contorti scherzi?”
“Il giudizio, mio Duca, è più affilato che mai,” replica Leocadia, il suo tono imperturbabile, quasi mellifluo, come quello di un’istitutrice che spiega una lezione perversa. “Lo analizzi con la freddezza che la caratterizza. Questi bambini non sono solo carne e ossa; sono la chiave del futuro di due lignaggi. Eredi di fortune, di influenze. Se si trovano sotto la nostra… diciamo, ‘custodia condivisa e benintenzionata’, cosa potrebbero fare Catalina o Adriano? Cosa potrebbero tentare le loro famiglie? Ogni barlume di ribellione, ogni tentativo di sciogliere i nostri accordi, sarebbe soffocato dal più primordiale degli istinti: l’amore parentale. Sarebbero il nodo gordiano della nostra alleanza, Duca. Un pegno sacro, vivente, che ci legherebbe più forte di qualsiasi giuramento scritto su pergamena.”
Il Duca si alza bruscamente, versando alcune gocce di brandy sul tappeto persiano. Cammina fino all’imponente camino di marmo, anche se il fuoco è spento, la stanza conserva un freddo che sembra emanare dalle pareti stesse. L’idea è mostruosa, una violazione di tutti i codici non scritti, anche tra quelli della sua specie. Ma, ed è qui che risiede la diabolica intelligenza di Leocadia, è anche una mossa magistrale: un controllo assoluto, una sicurezza a prova di tradimenti.
“E quale sarebbe, precisamente, lo status di questi bambini in questo scenario che lei dipinge con tanta… eloquenza?” chiede, la sua voce recupera parte del suo timbro autoritario, anche se una nota di turbamento persiste. Si gira per affrontarla, i suoi occhi grigi come l’acciaio cercano qualche crepa in lei, ma trova solo una determinazione incrollabile.
“Sarebbero trattati con squisita cura, naturalmente,” risponde Leocadia, come se parlasse dell’alloggio di principi. “Potrebbero risiedere in una delle sue proprietà più discrete, o forse in un luogo scelto da me, con personale della nostra assoluta fiducia. Lontano dal trambusto, lontano dagli intrighi… tranne i nostri, naturalmente. Catalina e Adriano capirebbero rapidamente che il benessere dei loro piccoli, la frequenza con cui potrebbero vederli, persino la loro stessa sicurezza, dipenderebbe interamente dalla loro lealtà e cooperazione incondizionata verso di noi. E, naturalmente, dalla perfetta armonia tra lei e me, Duca.”
Un silenzio denso, carico di implicazioni non dette, si instaura nella biblioteca. Il Duca soppesa l’enormità della proposta. È un patto col diavolo, senza dubbio, ma il premio è il controllo totale, l’annullamento di qualsiasi possibile minaccia futura da parte dei Luján o dei De la Mata. Leocadia, intanto, legge ogni sfumatura sul suo volto, ogni battito di ciglia, ogni tensione nella sua mascella. Non cerca solo il potere che le conferiranno quei bambini; anela a vedere Catalina sottomessa, spogliata della sua felicità, come una crudele vendetta per offese passate che solo Leocadia sembra ricordare con tanta vivida amarezza. Vuole essere il grande ragno al centro della tela, e i bambini, i fili dorati che intrappoleranno le sue prede più ambite.
“È… una proposta estrema, Leocadia,” ammette finalmente il Duca, la sua voce un mormorio rauco. Il bagliore dell’avidità, tuttavia, inizia a superare la repulsione iniziale nei suoi occhi. “Mi costringe a soppesare principi contro… pragmatismo.”
“I principi sono un lusso, Duca, che spesso ostacolano la grandezza,” replica Leocadia con un sorriso che non raggiunge i suoi occhi. “Il pragmatismo, invece, costruisce imperi. Le concedo fino all’alba per meditarci. Ma sappia che il treno dell’opportunità non aspetta indefinitamente. Confido che la sua leggendaria intelligenza la guiderà verso la decisione più vantaggiosa per entrambi.” Con un inchino del capo che è più una sfida che una mostra di rispetto, Leocadia scivola fuori dalla biblioteca, lasciando il Duca solo con i suoi demoni e una coppa di brandy che improvvisamente sa di cenere.
E così, mentre le prime e timide luci del martedì lottano per scacciare le ombre della notte, un discreto messaggero consegna a Leocadia una nota laconica. Un semplice “Sì” sigillato con il sigillo ducale. Il patto è sigillato, non con il sangue di un sacrificio rituale, ma con l’innocenza rubata di due anime appena giunte al mondo. Gli oscuri scopi di Leocadia vanno oltre la semplice accumulazione di potere; sono l’anticamera di una vendetta cotta a fuoco lento, la distruzione animica di Catalina, un piatto che intende assaporare con delizia.
Curro Svela l’Intricata Rete di Jacobo Monteclaro
Mentre Leocadia assapora il trionfo del suo infame accordo, in un angolo più umile ma non meno teso de La Promesa, la mente di Curro è un ribollire di sospetti. Dall’arrivo di Jacobo, quell’individuo dal sorriso facile e gli occhi sfuggenti, un allarme interno non ha cessato di suonare nel giovane. La sua indagine sui legami di Jacobo con l’apparentemente rispettabile Esteban Monteclaro è diventata un labirinto di vicoli ciechi, silenzi eloquenti e mezze verità che sanno di marcio.
“È come cercare di afferrare il fumo con le mani, Manuel,” si sfoga Curro con suo fratello, trovandolo nel solito rifugio di Manuel: le scuderie. L’odore di paglia fresca, cuoio e cavallo di solito calma i nervi di Manuel, ma l’angoscia sul volto di Curro è così palpabile che nemmeno il più nobile dei destrieri potrebbe dissiparla. Manuel, che con gesto esperto stringe la cinghia del suo stallone andaluso, si ferma e guarda Curro con attenzione. L’ombra della preoccupazione negli occhi del fratello minore è insolita e allarmante.
“Che ti succede, Curro? Hai l’aspetto di chi ha lottato con fantasmi tutta la notte.”
“E forse è così, fratello. Fantasmi del passato che si rifiutano di rimanere sepolti,” replica Curro, strofinandosi la fronte con un gesto stanco. “È Jacobo. C’è qualcosa di fondamentalmente falso in lui, Manuel. Si presenta come un Monteclaro, un lontano cugino in cerca di fortuna, ma la sua storia è piena di incongruenze. Ho frugato, ho chiesto a vecchi dipendenti dei Monteclaro, a vecchi conoscenti della famiglia… I loro racconti sulla sua giovinezza, sui suoi genitori, cambiano a seconda dell’interlocutore. E il modo in cui Esteban lo tratta… non è la deferenza verso un parente; è quasi… timore reverenziale.”
Manuel lascia cadere la cinghia e si appoggia al box del cavallo, incrociando le braccia. Conosce l’ostinazione di Curro quando un’idea si ancora nella sua mente. È come un segugio che non molla la preda. “E cosa sei riuscito a dissotterrare da tanta verbosità?”
“Frammenti, Manuel, solo frammenti frustranti,” ammette Curro, la sua voce tinta di impotenza. “Ma significativi. Vecchie lettere di famiglia, qualche annotazione in un diario dimenticato… Ho trovato riferimenti a una ‘disonore’ nella famiglia Monteclaro, una ‘questione spiacevole’ che fu sigillata e sepolta decenni fa. E il nome di Jacobo, o qualsiasi variante, non compare in nessuna genealogia ufficiale che ho potuto consultare. È come se fosse emerso dal nulla, ma con una conoscenza intima dei segreti di Esteban.”
Manuel si immerge nei suoi pensieri. Anche lui ha percepito una corrente sotterranea di falsità in Jacobo, un’astuzia predatoria sotto la sua facciata di affabilità. “Sai, Curro,” inizia lentamente, ricordando, “già tempo fa, prima che tutto questo incubo con Jimena raggiungesse il suo culmine, ho sentito per caso una discussione accesa tra nostro padre e Esteban Monteclaro. Fu breve, ma carica di tensione. Parlavano di un ‘errore di gioventù’ di Esteban, di un ‘obbligo’ che avrebbe potuto ‘macchiare l’onore di tutti’… All’epoca, non gli diedi molta importanza, ma ora che menzioni i tuoi sospetti…”
Gli occhi di Curro si illuminano con una scintilla di comprensione. “Credi che Jacobo sia la personificazione di quell”errore di gioventù’?”
“È un’ipotesi che inizia ad assumere un significato terrificante,” annuisce Manuel. “Esteban Monteclaro, nonostante la sua apparente rettitudine, ha sempre avuto un panico cervale per lo scandalo. Se Jacobo possiede informazioni, prove di quell”errore’, avrebbe Esteban completamente alla sua mercé.” Cerca negli angoli della sua memoria, frammenti di pettegolezzi di sua madre e delle sue zie, sussurri sulla giovinezza tempestosa di Esteban, su una passione proibita con una donna di classe inferiore, una relazione condannata fin dall’inizio. “Ricordo… sì, si vociferava con insistenza di un figlio bastardo. Un bambino nato da quell’unione impossibile… Un bambino che fu… allontanato, mandato via con sua madre per evitare la vergogna pubblica… Un bambino di cui non si parlò più… fino ad ora, forse.”
La rivelazione cade su Curro come una tegola. L’aria sembra farsi più densa nelle scuderie. “Un figlio… illegittimo?” balbetta. “Allora Jacobo è… fratello di…?” L’implicazione è così enorme che la frase gli muore sulle labbra.
“Mezzo fratello di Leonor, sì,” completa Manuel con gravità. “E, di conseguenza, con un diritto morale, se non strettamente legale secondo le leggi attuali, a una parte dell’eredità dei Monteclaro. E, cosa più importante, con un’arma di ricatto potentissima.” La verità, cruda e sorprendente, si dispiega davanti a loro in tutta la sua complessità. “Se è così, Curro, Jacobo non è un semplice avventuriero in cerca di un posto al sole… È una bomba a orologeria programmata con il rancore di decenni, un creditore che è venuto a riscuotere un debito di sangue e onore.”
Curro si sente sopraffatto. Jacobo, l’individuo che con tanta disinvoltura si muoveva per i saloni de La Promesa, che corteggiava sfacciatamente Martina, era in realtà un Monteclaro ripudiato, un figlio negato, con una storia di umiliazione e un desiderio di vendetta che doveva ardergli nelle viscere. Ora, la fretta di Jacobo, la sua audacia, la sua apparente mancanza di scrupoli, tutto assumeva un nuovo e sinistro significato. Non cercava solo ricchezza; cercava restituzione, riconoscimento e, forse, la distruzione di coloro che lo avevano condannato all’ostracismo.
“Devo… devo essere più cauto che mai, Manuel,” dice Curro, la sua voce appena un sussurro, ma con una nuova e ferrea determinazione nello sguardo. “Se Jacobo è chi sospettiamo, è capace di qualsiasi cosa per proteggere il suo segreto e raggiungere i suoi scopi.”
“Non solo capace, Curro. Lo farà,” sentenzia Manuel, appoggiando una mano sulla spalla del fratello. “Stai ballando con lupi travestiti da pecore. E questo lupo in particolare ha i denti molto lunghi e affilati.”
La Tenaglia si Stringe su Eugenia: Il Laudano e l’Erosione della Ragione
Parallelamente, negli alloggi dove la luce del giorno entrava filtrata e malinconica, la cospirazione contro la già fragile Eugenia si tesseva con fili di raffinata crudeltà. Leocadia e Jacobo, ora complici non solo nell’ambizione smodata ma anche nell’imperiosa necessità di neutralizzare qualsiasi minaccia ai loro piani, consideravano Eugenia un capo sciolto troppo pericoloso. La donna, nei suoi sporadici ma allarmanti momenti di lucidità, aveva iniziato a intessere sospetti, a ricordare conversazioni frammentate, a guardare Leocadia e Jacobo con una diffidenza che gelava il sangue. E l’ombra protettiva del Conte de Ayala, un uomo che non si tirava indietro, aggiungeva un ulteriore strato di urgenza alle loro macchinazioni.
“La sua mente è una polveriera, e le sue parole, se trovano l’orecchio giusto, potrebbero essere la scintilla che fa esplodere tutto,” aveva ragionato Jacobo in una delle sue silenziose conferenze con Leocadia, a cui si era unito Lorenzo, il Conte de Añil, con l’entusiasmo di un entomologo di fronte a un esemplare raro e vulnerabile. Lorenzo, con la sua vena sadica e il suo amore per i drammi altrui, trovò in questo piano un divertimento irresistibile.
“Il laudano, miei cari cospiratori, il laudano,” suggerì Lorenzo, assaporando le parole come un vino squisito. I suoi occhi, piccoli e brillanti, scintillavano di anticipazione. “Abbiamo già verificato la sua efficacia in passato con la nostra cara Eugenia. Un aumento sottile ma costante della dose. Le sue ‘intuizioni’ si trasformeranno in deliri febbrili, i suoi ‘ricordi’ in fantasie grottesche. Nel giro di settimane, nessuno in questa casa, nemmeno il Conte de Ayala, darà credito alle parole di una donna immersa negli abissi della demenza.”
Leocadia ascoltò, e un sorriso gelido, come la lama di uno stiletto, si disegnò sulle sue labbra sottili. “È… elegante nella sua semplicità, Lorenzo. La screditeremo al punto che la sua stessa ombra dubiterà della sua esistenza. Qualsiasi accusa, qualsiasi verità che cercherà di articolare, sarà il balbettio di una pazza. E Ayala non potrà muovere un dito per difendere qualcuno il cui giudizio è visibilmente offuscato.”
E così, la nuova offensiva contro Eugenia ebbe inizio, insidiosa e silenziosa. Alcune gocce aggiuntive di laudano nel suo tè mattutino, una polvere quasi impercettibile nel suo brodo serale, un “rimedio calmante” offerto con finta sollecitudine da una cameriera comprata. All’inizio, Eugenia sperimentò solo una maggiore stanchezza, una nebbia mentale che le rendeva difficile concentrarsi. Ma la droga, come una termita vorace, iniziò a corrodere le fondamenta della sua ragione.
“Ci sono! Posso vederli!” esclamò Eugenia un mezzogiorno, in piena sala da pranzo, la sua forchetta che cadeva con un clangore sul piatto. I suoi occhi, sproporzionatamente aperti, si fissarono con terrore in un angolo vuoto del salone. “Mi osservano! Sussurrano il mio nome! Pianificano la mia perdizione!”
Un silenzio imbarazzante calò sulla tavola. Gli altri commensali si scambiarono sguardi di costernazione e apprensione. Alonso, suo fratello, il Marchese, si alzò con il volto sconvolto dalla vergogna e dall’impotenza. “Eugenia, sorella, per l’amor di Dio, controllati. Non c’è nessuno lì. Stai… stai avendo una delle tue crisi.”
“No, Alonso, tu non capisci!” gemette lei, stringendo la manica della sua giacca con dita tremanti. “Sono loro… Leocadia, con il suo sorriso di vipera. Jacobo, con i suoi occhi di ghiaccio. Sono emissari dell’inferno! Ho intravisto le loro vere intenzioni, le loro anime nere!”
Leocadia, seduta a poca distanza, sospirò con teatrale compassione, chinandosi verso la Marchesa. “Povera Eugenia. È un vero peccato vedere come la sua mente si disintegra giorno dopo giorno. Un’ombra della donna che fu.” Interiormente, tuttavia, una fredda soddisfazione le percorreva le vene. Jacobo, dal canto suo, assunse un’espressione di dolente incomprensione. “Mi affligge profondamente che Doña Eugenia nutra tali pensieri su di me. Il mio unico desiderio è sempre stato mostrarle il massimo rispetto.”
Gli episodi di Eugenia si moltiplicarono, diventando sempre più stravaganti e inquietanti. Descriveva ombre con forme mostruose che strisciavano sulle pareti, udiva cori di voci beffarde che solo lei percepiva, sentiva il contatto gelido di mani invisibili sulla sua pelle. L’intera Promesa iniziò a tessere un velo di pietà e paura attorno alla figura di Doña Eugenia. I suoi avvertimenti, che prima avrebbero potuto seminare qualche dubbio, ora erano inequivocabilmente attribuiti ai deliri di una mente spezzata.
Una sera, mentre Catalina cullava uno dei suoi bambini nel roseto, Eugenia si materializzò al suo fianco come uno spettro. I suoi occhi febbrili, iniettati di sangue, si fissarono su quelli della nipote. “Catalina, bambina mia,” sussurrò con urgenza disperata, il suo alito sapeva vagamente dell’amaro del laudano. “Ascoltami bene… proteggi i tuoi figli… proteggili da lei… dall’arpia di Leocadia… Anela ad averli… lo so, l’ho visto… nelle mie visioni… o forse erano incubi troppo reali…” La sua voce si strozzò in un singhiozzo, e si guardò intorno con un panico viscerale, come se le rose stesse stessero per attaccarla. Catalina, sebbene profondamente inquieta per la veemenza della zia, non poté fare a meno di attribuire le sue parole al progressivo deterioramento della sua salute mentale. Il veleno somministrato con tanta astuzia compiva il suo dovere alla perfezione, rinchiudendo Eugenia in una gabbia di terrore e confusione, mentre i suoi carcerieri osservavano lo spettacolo con sadica delizia. Lorenzo si concedeva persino piccoli atti di crudeltà per alimentare il fuoco della sua follia: spostava oggetti nella sua stanza, le sussurrava il suo nome attraverso la serratura in piena notte, o faceva scricchiolare le assi del pavimento vicino alla sua porta. Era un gioco perverso, e lui si godeva ogni mossa.
Jacobo, l’Incantatore di Serpenti, Intrappola Martina nella Sua Rete
Mentre il suo infame piano contro Eugenia prosperava, Jacobo non trascurava l’altro suo fronte di battaglia: Martina. La giovane, il cui futuro era sigillato da un fidanzamento con l’influente ma austero Duca de Valois, si sentiva come un uccello in gabbia. Jacobo, con il suo fascino serpeggiante, la sua dialettica raffinata e quell’aria da avventuriero sofisticato che tanto contrastava con la formalità quasi glaciale del Duca, aveva iniziato a instillare il veleno del dubbio nel cuore di Martina, goccia a goccia, con la pazienza di un cacciatore esperto.
“Un uomo della statura del Duca de Valois, mia cara Martina,” le sussurrava Jacobo con voce intima e persuasiva, approfittando dei loro incontri apparentemente casuali nei labirintici corridoi o nella solitudine dei giardini al tramonto, “è programmato per ottenere ciò che desidera. Ma si è fermato a indagare cosa desidera veramente l’anima di Martina? Quali sogni palpitano nel suo petto, al di là delle imposizioni sociali e dei dettami familiari?”
Martina sentiva un rossore traditore salire sul collo. Distoglieva lo sguardo, fingendo interesse per un fiore, per il paesaggio. “La mia strada è tracciata, Jacobo. E il Duca è un uomo d’onore, un partito ineguagliabile.”
“Ineguagliabile o semplicemente… inevitabile?” indagava Jacobo, i suoi occhi scuri e penetranti che cercavano i suoi, cercando di abbattere le sue difese. “L’onore, mia dolce Martina, è spesso un sontuoso mantello che nasconde un cuore arido o, peggio ancora, calcolatore. Mi dica, con la mano sul cuore, prova per lui quella fiamma che divora, quella passione che trasforma ogni alba in una promessa di felicità? O solo la fredda correttezza del dovere compiuto?”
Queste parole, come dardi precisi, si conficcavano nell’anima di Martina. Il Duca era ineccepibile, sì, educato all’eccesso, ma emotivamente distante come una stella. Il loro fidanzamento era un contratto sociale, una transazione tra famiglie, non l’unione di due cuori ardenti. Jacobo, al contrario, le parlava il linguaggio dei sentimenti proibiti, degli aneliti segreti, risvegliando in lei una marea di emozioni che la terrorizzavano e la seducavano allo stesso tempo.
“Non dovremmo avere questo tipo di conversazioni, Jacobo,” replicava lei, anche se la sua voce tremava leggermente, smentendo la sua pretesa fermezza.
“E perché no, Martina?” sorrideva lui, un sorriso complice e pericoloso. “È forse un peccato capitale esplorare i labirinti del proprio cuore? O è che teme la verità che potrebbe trovarvi?” Si avvicinava sottilmente, invadendo il suo spazio personale, la sua presenza carica di un’elettricità quasi palpabile. “Io vedo in lei, Martina, non una bambola di porcellana destinata ad adornare il salotto di un nobile, ma un’aquila reale che anela a solcare i cieli, uno spirito indomito che appassisce in una gabbia dorata.”
Jacobo era un virtuoso della manipolazione emotiva. Identificava le vulnerabilità di Martina – la sua giovinezza, il suo romanticismo innato, la sua sensazione di essere intrappolata – e le sfruttava con maestria. Non era amore quello che provava per lei, ma il freddo calcolo dello stratega. Destabilizzare il fidanzamento di Martina con il Duca de Valois poteva fruttargli vantaggi inaspettati, creare crepe nel tessuto sociale dei suoi nemici o, semplicemente, procurargli il piacere sadico di seminare il caos. E se, nel frattempo, riusciva a sedurre la giovane e a trasformarla in un’alleata, consapevole o inconsapevole, tanto meglio per i suoi piani. Ogni confidenza rubata, ogni sguardo carico di doppie intenzioni, era un chiodo in più nella bara del fidanzamento di Martina e un passo in più verso la rete di influenza di Jacobo.
Martina, sempre più confusa, si sentiva lusingata dall’attenzione di un uomo così apparentemente affascinante, e allo stesso tempo colpevole per la slealtà che quei sentimenti implicavano verso il suo promesso sposo. Iniziava a osservare il Duca de Valois con una nuova lente critica, a mettere in discussione la solidità di un futuro che prima sembrava inconfutabile. Il seme della sfiducia, accuratamente annaffiato da Jacobo, germogliava rapidamente nel suo spirito, e con esso, un’attrazione pericolosa verso l’uomo che le offriva un’illusoria via di fuga attraverso parole inebrianti di libertà e passione.
Ricardo e il Fantasma di Santos: Un Duello Silenzioso
Lontano dallo sfarzo ingannevole dei saloni nobili e dagli intrighi di palazzo, nella zona di servizio, dove il lavoro era duro e le pene spesso venivano inghiottite in silenzio, il cuore di un padre sanguinava una ferita invisibile ma profonda. Ricardo, il maggiordomo, pilastro di efficienza e discrezione a La Promesa, si aggrappava con disperazione alla speranza sempre più flebile del ritorno di Santos, suo figlio. Ma ogni alba senza notizie, ogni notte che calava sulla casa senza il suono dei suoi passi, approfondiva il solco del dolore nella sua anima e aggiungeva un nuovo peso alle sue spalle stanche.
Santos se n’era andato sbattendo la porta, non solo fisicamente ma anche emotivamente, dopo una discussione particolarmente accesa con suo padre. Si sentiva incompreso, soffocato dalle aspettative paterne e dalla rigidità di un sistema di servizio che anelava a trascendere. Per Ricardo, la partenza di suo figlio non era solo l’assenza fisica; era la dolorosa constatazione del suo fallimento come genitore, l’eco costante di parole non dette e di ponti che non aveva saputo costruire.
A volte, mentre puliva l’argento o supervisionava i preparativi di una cena, trovava un piccolo oggetto dimenticato da Santos – una trottola di legno, un libro di avventure – e il ricordo della risata di suo figlio, dei suoi sogni giovanili, lo colpiva con la forza di un pugno. Cercò un effimero conforto nella compagnia di Pía, la governante. Lei, donna indurita dalle sue battaglie e perdite, possedeva un’empatia naturale e una saggezza tranquilla che spesso agivano come balsamo.
Il destino li fece incontrare nel piccolo e affollato ufficio di Pía, mentre cercavano di quadrare i conti della dispensa, un compito mondano che contrastava con la tempesta emotiva che Ricardo portava dentro. “Non so più cosa fare, Pía,” confessò finalmente Ricardo, la sua voce che si incrinava, tradendo la ferrea compostezza che di solito esibiva. Lasciò la penna sul libro contabile, e il suo sguardo, normalmente attento e scrutatore, si perse in un punto indefinito oltre la finestra. “Ogni mattina, quando il primo raggio di sole attraversa la mia finestra, una parte di me spera di sentire la sua voce, la sua risata… E ogni notte, quando il silenzio si impadronisce della casa, la delusione è come una pietra nel petto.”
Pía mise da parte i suoi stessi documenti e lo osservò con profonda compassione. Aveva conosciuto lo strazio della separazione, l’angoscia dell’incertezza. Gli offrì una tazza di tiglio che teneva sempre pronta. “Dai tempo al tempo, Ricardo,” disse dolcemente, la sua voce un sussurro nella quiete dell’ufficio. “Santos è giovane, ha il sangue caldo e l’orgoglio a fior di pelle. Ha bisogno di spazio per spiegare le ali, per inciampare e imparare dalle sue cadute. A volte, la distanza è l’unico modo perché certe ferite inizino a cicatrizzare e perché si dia valore a ciò che si è lasciato indietro.”
“Ma se quella distanza si trasforma in un abisso invalicabile?” chiese Ricardo, il timore ancestrale di ogni padre riflesso nei suoi occhi umidi. “¿E se il mio orgoglio, la mia testardaggine, lo hanno spinto così lontano da non trovare più la via del ritorno? Sono stato uno sciocco, Pía. Esigente, inflessibile. Volevo forgiare in lui un uomo di successo secondo i miei modelli antiquati, e forse sono riuscito solo a soffocare il suo spirito e a scacciarlo dal mio fianco.” Il maggiordomo, sempre un modello di dignità e controllo, dovette deglutire più volte per impedire che le lacrime gli scivolassero sulle guance.
“Tutti i genitori brancoliamo nel buio quando si tratta di crescere i nostri figli, Ricardo,” rispose Pía, la sua mano che cercava quella di lui sul tavolo in un gesto di solidarietà. “Commettiamo errori, diciamo cose di cui ci pentiamo. L’importante è che Santos sappia, nel profondo del suo essere, che lo ami incondizionatamente, che questa casa, nonostante tutto, è ancora la sua casa, e che le tue braccia saranno sempre aperte per lui. E ti assicuro che lo sa. L’amore di un padre è un’impronta indelebile, Ricardo, nemmeno le tempeste più violente possono cancellarla completamente.”
Ricardo inspirò profondamente, come se cercasse di riempire i suoi polmoni con la speranza che Pía gli offriva. “Mi tormenta l’idea di non potermi riconciliare. Di non avere l’opportunità di chiedergli perdono per la mia cecità, per non aver saputo vedere l’uomo che era già, invece del bambino che volevo che continuasse a essere.”
“Quell’opportunità arriverà,” affermò Pía con una serena convinzione che Ricardo desiderava con tutte le sue forze poter condividere. “Il legame tra un padre e un figlio è come un filo d’oro: può tendersi fino quasi a spezzarsi, può aggrovigliarsi dolorosamente, ma la sua essenza è indistruttibile. Mantieni viva la fede, Ricardo. E mentre aspetti, non lasciarti consumare dalla colpa né dall’autocommiserazione. Vai avanti, compi il tuo dovere con la dignità di sempre. Quando Santos deciderà di tornare, e lo farà, avrà bisogno di trovare un padre forte e intero, non l’ombra di un uomo sconfitto dalla tristezza.”
Le parole di Pía, semplici ma cariche di verità, furono come un’ancora in mezzo alla tempesta per lo spirito travagliato di Ricardo. Non cancellarono il suo dolore, perché l’assenza di un figlio è una ferita che cicatriza lentamente, ma accesero una piccola fiamma di speranza nell’oscurità della sua afflizione. Rimasero un istante in silenzio, uniti dalla comprensione reciproca delle pene taciute e dalla tenue promessa di un futuro ricongiungimento. Il maggiordomo, con il cuore stretto dalla nostalgia, sapeva che la presenza assente di Santos sarebbe rimasta una costante nei suoi giorni, un’eco persistente nei corridoi de La Promesa, fino a quando il destino, se benevolo, non avrebbe incrociato di nuovo i loro cammini.
E così, questo martedì 27 maggio, avanza inesorabilmente a La Promesa, tessendo una ragnatela sempre più complessa e sinistra. Leocadia, con il suo patto infernale, stringe il cerchio sulle sue vittime. Curro, armato di una verità pericolosa, si addentra con cautela in un nido di serpenti. Eugenia scivola, spinta da mani invisibili, verso il precipizio di una follia fabbricata, mentre i suoi torturatori sorridono in anticipo. Martina, al bivio della sua giovane vita, si dibatte tra la lealtà imposta e i canti di sirena di un seduttore consumato. E Ricardo, nella solitudine del suo lutto, piange in silenzio l’assenza di un figlio prodigo. Il sole inizierà presto il suo lento declino verso l’orizzonte, ma le ombre più dense e minacciose non saranno quelle del crepuscolo imminente, ma quelle che, invisibili a molti, si nascondono nei cuori e nelle menti di coloro che camminano per i corridoi de La Promesa. Ciò che è stato seminato in questa giornata funesta, cari lettori, promette un raccolto di amarezza, tradimento e, senza dubbio, nuove e ancora più sconvolgenti rivelazioni.